storie

Il mare d’Irlanda

He gazed southward over the bay, empty save for the smokeplume of the mailboat, vague on the bright skyline, and a sail tacking by the Muglins.

J. Joyce – Ulysse

I

Il mare d’Irlanda mi guarda.
Sandycone lunedì 16 giugno.
A destra la Martello Tower, a sinistra il porto di Dun Laoghaire.
Sullo sfondo il tam tam della DART.

Il signor, anzi Mister, Bloom sta andando ad un funerale, mentre Stephen esce di casa con una strana nausea addosso.

Bacio questo momento con labbra umide d’Irlanda.
Seduta sul muretto guardo dritto verso il centro del mare e scruto le nuvole, che scappano per non darmi risposta.
Nello zaino ho un biglietto Dublino/ Milano Malpensa.
Martedì ore 7.10: check in ore 6.30,
Ho già prenotato un taxi per le 6.15.

Lunedì prossimo mi aspettano di nuovo l’ufficio e le nevrosi di Achille: fatturare, fatturare, fatturare, remare con affanno nello Stige delle sue frustrazioni.
A volte mi sento un criceto, che si arrampica lungo una ruota che gira controsenso. Alla sera arrivo a casa, con le zampette distrutte e non mi sono mossa di un centimetro.
Dal lunedì al venerdì mi sembra di camminare, funambola, su gusci d’uova e bucce di banane.
Stare come d’autunno le foglie.
Costantemente in bilico fra pazzia e produttività.

Attenta a non compiere quell’errore fatale, che ti degrada da essere umano a problema.

Quando esaurisci tutte le tue vite a disposizione e sullo schermo del tuo videogioco aziendale appare la scritta “Game Over”.

E poi ci sono gli occhi, così torbidi, che ti guardano con disprezzo.

II

Avevo scoperto il mare a cinque anni.

Eravamo partiti un afoso pomeriggio di agosto io, mia sorella Valentina, mamma, papà, zia Anto, quindici peluches, Eric e Omar (ma loro volavano, erano i miei amici immaginari) sulla 112 rossa. Non sapevo ancora scrivere 112 perché avevo imparato a contare fino a cento.
Nel pensierino di settembre “Descrivi le tue vacanze” avevo scritto “Quest’estate per la prima volta sono andata al mare con la 10012” e il maestro aveva creduto che fossimo nababbi.

Eravamo arrivati di notte: nero sopra e nero sotto, non si vedeva niente.
Il giorno dopo mi ero gettata fra le onde con un bikini di seconda mano, fantasie pschichedeliche Anni 70 e un salvagente con la testa di cavallo.

A sette anni lo avevo rivisto per la seconda volta: gita scolastica alle grotte di Toirano e Alassio. Mamma mi aveva chiesto se volevo che mi accompagnasse perché ero l’unica bambina della classe.

“No, vado da sola”.

Poi, perché ero felice della mia avventura, le comprai un paio di orecchini e un accendino per papà.

Dall’anno successivo il mare diventò una tappa estiva fissa, il momento nel quale la famiglia restava unita e vedevo papà per quindici giorni di fila. A volte non sapevo cosa dirgli, ma era bello che fosse lì.

Ad Alassio sarei tornata dieci anni dopo per la mia prima vacanza senza genitori.

Ma quello stesso anno, a febbraio, ero già scappata a San Remo per vedere il mio teen idol: Nick Carter dei Backstreet Boys. Le mie amiche avevano ragazzi brufolosi dagli ormoni impazziti e io cento suoi poster appesi in camera e un unico sogno: vederlo dal vivo, anche solo per un attimo. Avere la prova empirica della sua esistenza, dell’essere entrambi umani. Dieci ore di attesa fuori dal teatro Ariston, spettatrice/attrice del circo mediatico dell’intrattenimento: ero comparsa in numerosi collegamenti a programmi contenitori del pomeriggio, ero stata intervistata da una radio, avevo iniettato dosi di autostima alla fauna televisiva che sfilava per la rossa passerella. “Venghino, signori venghino ad ammirare le incredibili creature del tubo catodico.”

Poi, nella folla si sparse una voce “Stanno arrivando, si affacceranno dal balcone per il Tg delle venti”. E così, finalmente, la sua apparizione: indossava una maglietta rossa da football dei Tampa Bay Buccaneers. Isteria e urla incontrollate “rinnega la tua fama, rifiuta il tuo nome.”

“Mamma l’ho visto, mamma l’ho visto!” Urlavo ebbra di felicità nella cabina telefonica. L’avevo visto. Esisteva. Lo amavo. Felicità per mesi. Due settimane dopo a Barcellona ero fuggita da Luca che ci provava in discoteca.

“Dammi almeno un bacio”: diceva, sporgendo le labbra.

“Neanche morta”.

Mi ero alzata ed ero rimasta in bagno dieci minuti, la testa che girava per il Gin Lemon, bevuto con disinvoltura e offerto dal pretendente. I capelli che puzzano di fumo.
Lui non mi aveva aspettato sul divanetto, se n’era andato a bere Coca e rhum al bancone bar.

Finalmente ero libera e mi mimetizzai ballando “Men in Black”.

III

Da bambina leggevo i fumetti di Topolino e speravo sempre che ci fossero le storie a bivio, quelle nelle quali potevi decidere il finale. Oggi sono ad un crocevia. Da una parte il biglietto: tornare a casa, rientrare in ufficio, vestirmi all’ultima moda e presentarmi all’appuntamento che ho estorto, dopo decine di mail, ad Achille per chiarire la mia posizione lavorativa.

E dall’altra una voce nell’orecchio che insinua: rifiuta il nuovo contratto, cercati un lavoretto qui, impara la lingua, vivi il presente e quando ti annoierai di Dublino, prendi un’altra destinazione a caso. Gira il mondo, non tornare a fare il criceto obeso in una gabbietta di routine. Dai non vorresti tuffarti da trampolini sempre più alti? Asia, ti ricordi che piacere provavi quando ti allontanavi e fuggivi da qualcosa che ti metteva ansia? Sì, mi sono sentita potente a lasciare in sospeso sorrisi, frasi, gesti e cuori.

Tutto appeso ad un filo che tesseva di notte una tela di speranza.

IV

Sotto la pioggia riprendo la DART, destinazione Howth.

Nel mio scompartimento ci sono quattro persone e un cagnolino addormentato. Siamo un gruppo, eppure ci ignoriamo; io guardo fuori dal finestrino e fingo di essere in un video degli U2 “And I still haven’t found, what I’m looking for…”, la donna di fronte a me, occhi verdi e capelli rossi, legge un tabloid e controlla il suo beagle che sonnecchia.

Un uomo rubicondo dorme con la bocca spalancata, come se stesse per abboccare ad un amo immaginario.

La baia di Dublino mi scorre davanti agli occhi “And I still haven’t found, what I’m looking for…”.

Stazione di Howth, fine corsa. Appena dietro alla stazione c’è la spiaggia e in mezzo al mare emerge un arcobaleno.

L’occhio di Irlanda mi guarda.
E io penso: che bello sarebbe vivere qui e tessere di giorno una tela e decidere cosa fare quando sarà terminata.
Ma di notte, i miei sogni, la distruggono e il giorno dopo devo ricominciare da capo.

V

Buzz Buzz. Vibra il telefono cellulare che ho in tasca.

E’ un Whatsapp di Katia.

” Ciao Asia, qui un casino, hanno trovato Achille morto. Guarda cosa scrive il giornale!”

Rileggo due volte. Poi vedo la fotografia del giornale. Morto?

“Terribile, ma 1 incidente in car?”

La risposta non tarda ad arrivare:

Si pensa ad un omicidio, stanno indagando. Chiamami quando puoi. Kiss Katy

Che tragedia.
Quell’uomo mi stava portando all’esaurimento, ma non avrei mai potuto pensare che qualcuno potesse ucciderlo.

Uno di noi? Una delle sue amanti? La moglie? Spionaggio?

In questo esatto momento Achille è morto.
Non esiste più e con lui sono svanite le sue ossessioni e le sue paranoie.
A che cosa sono servite oltre che a farmi venire la gastrite? D’ora in poi il mondo andrà avanti lo stesso e anche la Gigabyte Solutions non chiuderà di certo i battenti.
Inconsciamente tiro un sospiro di sollievo, perché non ci sarà lui a discutere il rinnovo del mio contratto.

Poi inorridisco, ma Mrs Hyde se la ride dentro di me e dice:

Ha finito di rompere i coglioni a mezzo mondo, il bastardo.

VI

Completamente scossa, riprendo la DART per tornare al mio Bed & Breakfast a Dublino.

Squilla il telefono cellulare sul display “Ufficio”.

“Ciao sono Annalisa, scusa se ti disturbo in ferie – era la responsabile dell’ufficio del personale – non so se ti hanno detto della disgrazia che ci ha colpito.”

“Ciao Annalisa, sì, ho parlato con Katia.”

“Lunedì, appena rientri dalle ferie, potresti venire qui da noi alle nove. Sapevamo che avevi un incontro con Achille per il rinnovo del tuo contratto, che è in scadenza. Dovremmo rivedere le condizioni e capire, dopo questa tragedia, come andremo avanti.”

“Si, va bene. Ci vediamo lunedì alle nove.”

“Grazie, Ciao.”

VII

Così, mentre scendo alla fermata di Tara Street e mi dirigo a piedi verso O’Connell Street, sento che ho deciso cosa fare.

Domani prenderò quell’aereo e tornerò a casa.
Poi lunedì mi presenterò all’appuntamento e vuoterò il sacco.
Parlerò delle torture psicologiche e delle umiliazioni che io e le mie colleghe abbiamo dovuto subire per portarci a casa il rimborso spese per il nostro stage aziendale. Stamperò tutte le mail che lui ci scriveva la domenica notte e che noi ricevevamo il lunedì mattina, nelle quali venivamo apostrofati come “analfabeti iscritti ad un circolo ricreativo, escrementi sociali e psicolabili fannulloni.”

Straccerò davanti alla direzione quell’insulsa proposta di contratto a progetto da quattrocento Euro per dodici mensilità, che significa completa subordinazione per dieci ore lavorative al giorno, nessuna garanzia, ferie e malattia a discrezione della direzione, reperibilità illimitata nel tempo e nello spazio.
Denuncerò con tutti i mezzi questi abusi e parlerò delle mezze battute e frasette allusive, di quelle attenzioni particolari che facevano lievitare la busta paga e ti davano la possibilità di avanzare nell’azienda.

È scesa la sera: anche Stephen e Leopold, passata la sbronza, troveranno la strada che dal pub li riporterà alla loro Itaca. Per me finisce questo giorno e inizia il mio nuovo viaggio.

Adesso che ho trovato quello che stavo cercando.

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