Il tendone del circo si era materializzato la notte del 20 maggio 1989 davanti alla scuola elementare di Lombriasco. Si era gonfiato come un bigné, bianco e azzurro, al posto del campetto da calcio-tennis-pallavolo-basket.
Il mattino successivo una variopinta folla di zaini e cartelle imbizzarrite aveva accolto la novità emettendo un “oohh” all’unisono mentre, davanti alla porta dell’istituto, un uomo con un frac giallo sventolava biglietti dai colori sgargianti e gracchiava:
– Bambini! Questa sera fatevi portare al circo da mamma e papà! Clown, contorsionisti, mangiafuoco e poi lei, la bellissima Giada, l’angelo volante!
La stessa sera una bambina di nove anni, vestita a festa, è seduta in prima fila in attesa di assistere al volo della trapezista, mentre nel tendone si alternano clown con le facce sporche di torta che cadono in continuazione, un pony dagli occhi umidi che trotta in cerchio montato da due meticci neri con cappellini rossi, il mangiafuoco che, come il drago di San Michele, sputa fiamme e non dice una parola.
Risate, applausi, eccitazione, ma la bambina è impaziente e non riesce a stare seduta: gli occhi la cercano nel buio – dove potrà essere? – le gambe sono elettriche e vogliono muoversi. Così, appena la madre si volta un istante per salutare la signora Lucia, lei scappa facendosi inghiottire da una tenda spessa di velluto nero.
Dal buio appare la Dea: è una giovane donna minuta, più bassa della mamma, ha i capelli biondi, raccolti in una coda di cavallo, gli occhi verdi, truccati con un ombretto blu-Puffo, le ciglia nere, lunghissime, il viso bianco come una bambola di porcellana, le labbra amaranto, come le sue unghie. Il corpo è fasciato da un body color carne tempestato di pagliuzze argentee e dorate, mentre i suoi piedi sono stretti da bende bianche che le nascondo le dita.
Si sta preparando al volo: flette il busto in avanti fino a toccare le punte dei piedi, poi si rialza e inarca la schiena; infine inclina nuovamente il busto lateralmente, prima e destra e poi sinistra. Ripete questi gesti in sequenze di cinque e poi respira, respira profondamente; infine slancia la gamba in avanti fino a toccarsi la fronte con il ginocchio, quindi esegue nuovamente lo stesso gesto, ma all’indietro. I suoi movimenti sono sicuri e non tradiscono la minima emozione, i suoi occhi sono calmi, mentre quelli della bambina si sono fatti più grandi per guardarla meglio.
Ad un tratto si avvicina alla donna il mangiafuoco che le sporge una lattina stretta e alta, come quelle che beve il papà il sabato sera o quando viene a trovarli lo zio Marco; lei sorride e poi la apre aiutandosi con l’unghia del pollice destro che brilla di rubino, quindi beve con avidità, senza fermarsi.
Infine getta la lattina in terra e la spinge via con le punte tese dei piedi… il cilindro rimbalza, rotola, fino ad intersecarsi con un ghirigoro nero proiettato sul pavimento.
– Ehi, tu! Qui non puoi stare! Su, torna dalla mamma, via!
La bambina è paralizzata, mentre un velo di lacrime le offusca la vista.
Dove sono?
– Martina, Martina! Ma dove sei sparita! Sei matta a scappare così? Vieni che adesso c’è la trapezista!
Ma lei non riesce più a vedere niente, perché tutto, la mamma, il tendone, i meticci, la trapezista, è puntinato di nero, tante piccole chiazze scure, come quelle che appaiono dopo aver fissato per troppo tempo il sole.
La mattina successiva il circo era scomparso: il bignè, a strisce bianche e azzurre, sparito, risucchiato da quel boh da cui era arrivato.
Ma da quella sera, e per tutta la vita, quell’alone scuro ricompare ogni volta per rivelare cosa c’è dietro una tenda spessa di velluto nero.