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Canto notturno

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?

La luna, quella notte, era così vicina che potevi sfiorarla con un dito: un cerchio gigantesco, quasi infuocato, che faceva capolino tra i freddi e anonimi condomìni Anni Cinquanta del quartiere.

Catia la guardava ipnotizzata attraverso la finestra della camera da letto.
Anche oggi era sveglia nel cuore della notte.
L’insonnia aveva iniziato a farle visita un paio di anni prima durante la gravidanza: gli improvvisi movimenti del feto, l’impellente bisogno di andare in bagno ogni tre ore, la schiena che le faceva male, la difficoltà nel trovare una posizione comoda, non le permettevano un riposo continuativo.
Con la nascita della bambina le cose non erano migliorate e ogni nottata era stata interrotta da pianti, cambi di pannolino, dentini dolenti, tosse secca, tosse grassa, febbre, sete, incubi e fantasmi sotto il letto.

E anche adesso, che Elena da oltre sei mesi dormiva per tutta la notte, alle tre era sveglia, la mente lucidissima, un fiume di idee e di progetti che avrebbe voluto condividere con Stefano, suo marito, che le dorme accanto.

Alcune notti fa era anche accaduta una strana alchimia: entrambi si erano ritrovati svegli nel cuore della notte e, come adolescenti in gita scolastica, avevano iniziato a ridere e parlare di Loro.

Non della cacca o della tosse della piccola, non di quel cliente che non paga da due anni, non del capoufficio frustato sessualmente, non di scadenze e F24 da versare.

In quell’istante, buio e silenzioso, c’erano solo Loro: due persone che si erano incontrate per un fortuito caso e che si erano scelte, attratte da un’affinità irrazionale.

Due persone che, intrappolate dal vortice del dovere e delle priorità materiali, si stavano lentamente spegnendo e allontanando, ma che in quell’attimo erano tornate ad essere calamite che non riuscivano a staccarsi.


Ma tutta quella vitalità notturna puntualmente svaniva al sorgere del sole e al suo posto s’insinuava un’apatia e una crescente disillusione che da anni aumentava ogni giorno di più.

Come le sembravano lontani i tempi in cui lavorava alla Gigabyte Solutions: i ritmi di lavoro folli e frenetici, l’illusione di una crescita continua, la cieca fiducia nel futuro tecnologicamente avanzato.
Tutto era svanito nel novembre 2008 quando, poco alla volta tutto si era fermato.

La stessa Gigabyte Solution, che Catia aveva lasciato all’epoca del misterioso omicidio di Achille Manzi, il direttore commerciale dell’azienda, era stata inghiottita in un buco nero.
Sparita, o meglio fallita.
Oggi di quella società rampante e sfrontata non rimaneva più nulla: nella prestigiosa sede che era costata oltre due milioni di euro adesso c’erano gli uffici di una nota impresa di pompe funebri.

Da sette anni Catia lavorava in un’azienda concorrente, sgangherata pure quella, ma che al momento restava in piedi in virtù di qualche sconosciuta alchimia finanziaria.
Ma anche qui, rispetto al primo impiego, al terrore per le sfuriate del capo e all’ansia per le sue richieste assurde e impossibili, era subentrata una crescente indifferenza e apatia.

Così, quando il Ragionier Cucchi iniziava con le sue interminabili e logorroiche ramanzine, snocciolando dati negativi sul fatturato e critiche infinite sulle performances lavorative dell’ufficio, nonché alla totale incapacità del team di “lavorare per obiettivi”, lei aveva imparato ad estraniarsi e a sdoppiarsi.

Mentre il suo corpo rimaneva nell’ufficio del titolare e la sua testa ogni tanto faceva un cenno per annuire, la sua mente vagava e iniziava a pensare ad altro, immaginando situazioni paradossali e inverosimili.
Catia lo fissava muta mentre strillava di vision e obiettivi strategici e se lo immaginava nei panni di Dart Wader, mentre lei, una Luke Skywalker in gonnella, lo fronteggiava a colpi di spada laser, inscenando duelli intergalattici contro il Male.

In quello stato psicologicamente alterato il Ragioniere andava avanti per ore: urlava, sudava, dimenava le braccia, saltava sulla sedia, ma lei restava muta, impassibile. Disconnessa.

Quando proprio non riusciva più a reggerlo, per chiudere quei monologhi insostenibili e sterili ad un certo punto, ritirata la spada laser, concludeva dicendo:
“Certo, Rag. Cucchi è senz’altro così.”

Ogni notte Catia si ripeteva che doveva tornare a scrivere.

Quella era la sua autentica e insana passione che la tormentava fin dall’infanzia, una fiamma che, con il passare degli anni, non accennava a spegnersi, ma che anzi si ravvivava sempre più.

Inutilmente aveva provato in questi trentotto anni a soffocarla, correggendosi e cucendosi addosso una vita “normale”, ordinaria e ordinata, ma niente, gli sforzi erano stati completamente vani.

D’altra canto non era riuscita nemmeno a conformarsi allo stereotipo socialmente accettato della donna creativa: zitella, vestita in modo improbabile, accanita fumatrice che vive sola con una dozzina di gatti.

E questo la rendeva uno strano ibrido, un enigma irrisolvibile, un errore impossibile da correggere.


In realtà i fatti le avevano dato ragione, quella era le sua strada: grazie ad un corso di scrittura che aveva seguito era riuscita a dare forma ad un manoscritto e aveva iniziato a frequentare alcuni circoli letterari dove, con grandissimo piacere, aveva scoperto che le sue storie interessavano, emozionavano, piacevano.
Era arrivata anche alla pubblicazione del suo primo romanzo e non a pagamento; presentazioni, aperitivi e cene letterarie, recensioni on line, addirittura persone che al supermercato l’avevano fermata per farle i complimenti o che le mandavano e-mail di ringraziamento!

Erano seguiti altri progetti letterari, ulteriori pubblicazioni, bellissimi incoraggiamenti di personaggi influenti dell’editoria: come si era sentita viva, felice e realizzata, credeva di avercela fatta.

Ma anche qui, con la nascita di Elena, non era più riuscita a trovare la concentrazione per mettere mano ad un nuovo lavoro; leggere e isolarsi per ore e ore era impossibile, tanto meno uscire alla sera per cene e serate letterarie.

Si era sentita nuovamente esclusa, isolata, come sempre fuori luogo: in gabbia, chiusa in casa fra panni sporchi ed eserciti di polvere, a disagio con le mamme che parlavano esclusivamente di svezzamento, dentizione, rito della nanna e lavaggi nasali; emarginata tra gli scrittori perché non aveva più tempo da dedicare esclusivamente a Leopardi, Pascoli, Tolstoj, Kant e compagnia bella.

Nonostante la crescente frustrazione rimandava la sua realizzazione sempre al giorno successivo: prima c’era da mettere in ordine la casa, poi un’urgenza sul lavoro, dopo una spesa imprevista, poi non aveva niente di decente da indossare.

Infine l‘esperienza della maternità l’aveva trasformata completamente: non esisteva più una singola Catia, ma un essere molteplice e metamorfico.


Un’iguana meno debole e paurosa del passato, ma che ogni giorno si trasformava e che nemmeno lei riusciva più a riconoscere.

A furia di soffocare di giorno le sue aspirazioni e il suo talento, si svegliava a notte fonda con il cervello in piena: un fiume di idee, pensieri, annotazioni, incipit di racconti che annotava compulsivamente su un’agendina che aveva comperato l’estate scorsa a Parigi nel Marais.

La notte, poco alla volta, aveva iniziato a parlarle: nel silenzio della casa, interrotto solo dal tic tac di un orologio a parete, Catia udiva voci, suoni ibridi, né notturni, né diurni, echi che parlavano di cose lontane, dimenticate, di qualcosa che aveva perso o dimenticato: un ombrello, un mazzo di chiavi, un amico, un pezzo di lei.

Questi usignoli chiedevano di essere ascoltati, la imploravano di lasciare stare lavatrici, detergenti per wc e piastrelle e quell’insulso lavoro in ufficio che la umiliava quotidianamente; chiedevano di poter essere raccontati, di trovare spazio nella sua fitta lista delle cose-da-fare-e-non-dimenticare.

Ma troppo grande era la paura di buttarsi dal trampolino e alla fine ogni notte rimaneva lì ferma, paralizzata, ad ammirare quella gigantesca, tonda luna infuocata.

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