Una tazzina di caffè, una come tante, di quelle che consumiamo insieme il mercoledì pomeriggio dopo il lavoro.
Il fumo che esce dalla tazza, il calore che l’attraversa, il profumo che mi riempie le narici.
Il tin tin del cucchiaino mentre giri lo zucchero.
La tua voce che mi avvolge e racconta le tue peripezie quotidiane: i battibecchi e le frecciatine, le colleghe pettegole, le battute dei colleghi maschilisti e il capo pazzo che urla tutto il giorno.
Urla, urla, urla!
Ma tu sorridi sempre e sembra che tutto questo ti diverta moltissimo.
Sorridi e, inclinando il capo verso sinistra, dici che va tutto bene.
Il locale è tetro e caotico: è un squallido bar vicino alla stazione, ma tu lo rendi il non luogo più bello in cui stare. Arrivi tu e le sedie sgangherate si rivestono di pregiato velluto, i tavolini traballanti e incisi con frasi squallide diventano arredi pregiati.
Anche quell’odore di treno, deodorante, ascella pezzata, sigaretta elettronica, cane e ombrello bagnato, muta in un profumo inebriante al suono della tua voce.
“E a te come è andata oggi?” Mi chiedi.
Come ogni volta arriva il mio turno e, mentre io parlo, tu mi ascolti.
Ascolti le mie noiosissime giornate trascorse dietro ad un monitor e le ascolti come se fossero la cosa più coinvolgente di sempre. Ascolti le mie paure, le mie insicurezze che mi fanno oscillare in continuo tra la tristezza cosmica e l’entusiasmo dei visionari.
Solo con te riesco ad aprirmi, a raccontarmi ed essere me stesso.
D’altronde l’emotività nel mondo maschile fa paura, per questo è spesso schernita e bullizzata. Va nascosta, mimetizzata, dissimulata.
Noi siamo quelli che non devono chiedere mai, perché i maschietti non devono piangere mai. E tutte quelle stronzate Anni Ottanta che odorano di after shave.
Ma quando ci sei tu il mio scudo cade: non ricordo nemmeno dove si trova il pulsante per attivarlo. C’è la tua voce: mi dice impara a desiderare e a crederci. Usa con te parole gentili, la parola crea. Non crearti scenari catastrofici, che poi ti porti sfiga da solo.
Di solito, dopo quel caffè, ci alziamo, ci salutiamo e ognuno va verso la propria destinazione.
Tu verso la vita e i tuoi mille impegni.
Io verso casa e una cena monoporzione da consumare sul divano.
“Ci vediamo mercoledì prossimo: stessa strada, stesso posto, stesso bar!”
E io ti seguo con lo sguardo finché non sparisci tra i mille passeggeri, i cani bagnati, gli ombrelli, i clochard.
Ma stasera, prima di salutarci, guardi il tuo telefono ed esclami: “Merda, l’incontro di stasera è annullato per un caso Covid..”
Allora tu mi chiedi se voglio fermarmi per cena.
Quell’agenda, sempre zeppa di appuntamenti, adesso ha uno spazio vuoto, per noi.
In una frazione di secondo la mia mente è già salpata verso orizzonti infiniti: aperitivo, cena, dopo cena e dopo dopo cena. Forse siamo già anche all’altare, in viaggio di nozze ai Caraibi, abbiamo due figli, un border collie di nome Bennie, una casa al mare.
Ma poi, come sempre, la paura di vivere mi blocca.
Attenzione, allarme, autosabatoggio in corso.
“Che dici si può fare?” Mi chiedi.
Riavvolgo il nastro della mia fantasia e mi rifugio appallottolato tra le braccia delle mie insicurezze. Balbetto una scusa.
“Caspita proprio questa sera che ho un appuntamento io che non posso rimandare… che sfortuna…mi spiace tanto…”
Ci alziamo, ci salutiamo e ci separiamo, ognuno diretto verso la propria destinazione.
“Allora a mercoledì: stessa strada, stesso posto, stesso bar?” Le dico.
“Certo, a mercoledì.”
Mentre mi allontano mi maledico, mi insulto pesantemente.
Tiro giù tutte le peggiori parole del mondo e le schiere dei santi.
“Sei sempre il solito coglione.”
Così, mentre per la rabbia calcio con violenza una lattina che incrocio a terra, nella mia mente riecheggia il tin tin della tua tazzina di caffè.