Il mio primo romanzo nasce da un racconto breve che iniziai a scrivere di getto una sera invernale del 2003 dopo settimane di lavoro assurde. Avevo 23 anni e quella era la mia prima esperienza lavorativa, il mio ingresso nel mondo degli adulti, dopo anni di studi proficui e una quotidianità protetta tra le mure domestiche.
Il primo impatto fu davvero shoccante: un mondo frenetico, aggressivo, nel quale faticavo a capirne le dinamiche, le cattiverie e meschinità.
Scrivere è sempre stata la mia cura e così, quella sera ormai esausta, iniziai a buttare sulla carta tutte le mie frustrazioni e ansie più profonde e più scrivevo più mi sentivo libera e leggera.
Il racconto iniziava così…
Notte: ouverture
Sponda orientale del Lago Azzurro.
Notte fonda.
Cinghiali che attraversano la strada incauti, la luna si specchia in un pozzo.
Una luce, fioca, esce da una finestra aperta.
Note che accarezzano le stelle con dita di sonno.
Dentro Villa Manzi un piccolo uomo passeggia su e giù lungo il soppalco del suo studio.
Cric cric crac, cric cric crac.
In questo movimento perpetuo i polsi del giovane uomo ondeggiano freneticamente: si piegano all’indietro e poi, con uno scatto improvviso, si buttano in avanti, nervosamente, come volessero svitarsi dal corpo.
Lo faceva sempre prima di iniziare un concerto, quando era un pianista: glielo aveva insegnato Mikhail, il suo maestro.
Un due tre, scatto di polso e parto deciso.
A Zurigo, Londra, Tokio e Roma, il pubblico impazziva ad ascoltare il bambino prodigio che sveniva al termine dei suoi concerti.
Silenzio in sala. Si spegnevano le luci. Le prime note riempivano l’aria e poi la testa di Achille iniziava ad ondeggiare e a scuotersi priva di controllo, le dita che salivano e scendevano scale ripide e contorte. Dopo l’ultimo pezzo ancora silenzio. Poi il collasso. Achille stramazzava al suolo privo di sensi. Calava il sipario.
Standing Ovation.
II
Nel buio della sua camera da letto Elisa dorme da più di un’ora: la testa che le gira ancora un po’ per il bicchiere di troppo bevuto in vineria insieme a Katia e Simone. Rannicchiata su un fianco, in centro al letto matrimoniale, sogna accarezzando la sagoma di un uomo che non c’è.
Nella stanza accanto, Marco e Martina dormono abbracciando due draghi dalle ali dorate che, per questa sera, hanno deciso di non uccidere.
III
Un insetto ronza nello studio di Achille: batte e ribatte contro un’illusione luminosa a basso consumo. Poi perde quota e si schianta in terra. Coricato sulla corazza, dimena disperato le sue zampette nel vano tentativo di risollevarsi per tornare ad inseguire quella tentazione di luce.
Cric cric crac, cric cric shiack.
La suola della scarpa destra di Achille schiaccia rabbiosamente l’insetto, mentre i suoi polsi continuano ad ondeggiare.
Tutto ad un tratto un flash: “And the winner is”. Fragore e applausi. La sera in cui aveva vinto il Grammy Award come compositore del miglior album di musica classica. Che sbornia al party dopo la premiazione. Era stato in quel momento, nella folla e tra le allucinazioni, che aveva incontrato Elisa ed era stato un colpo di fulmine.
Lei, bellissima e fragile, era apparsa come una visione: con timore quasi reverenziale si era avvicinata con un CD in mano. Voleva un autografo dal maestro.
“Andiamo a Parigi, stasera?” le aveva chiesto lui immediatamente.
I suoi occhi avevano detto sì ed erano partiti all’istante.
Solo più tardi, mentre era in taxi verso l’aeroporto, Achille si ricordò che aveva dimenticato alla festa Milena, la sua attuale compagna. Se n’era completamente scordato.
IV
Cric cric crac, cric cric ssshh.
Silenzio. Anzi no. Una specie di fischio sordo rimbomba nell’orecchio di Achille. Una strana sensazione, come se un piccolo corpo, forse un insetto, gli passeggiasse su e giù tra il labirinto e la cocea. Andata e ritorno, senza mai fermarsi.
Sulla sua scrivania riposano un notebook, un Ipad e due smarthphone. Sono tutti muti. Sono le tre e trenta e fuori è notte fonda. Achille, come al solito, non ha sonno.
Dove saranno e cosa staranno facendo tutti i suoi dipendenti? Asia, Catia, Grazia, Michele e tutti gli altri decerebrati: staranno dormendo? Da soli o in compagnia? Chi di loro domani mattina si inventerà l’ennesima malattia o la nonna moribonda per mancare in ufficio? Come vorrebbe dare fuoco a tutte quelle scrivanie vuote, soprattutto il lunedì mattina. Ma non si può, è vero, ci sono i diritti dei lavoratori.
Un pensiero gli balena nella mente: adesso vorrebbe prendere il telefono e provare a chiamarli uno ad uno sul numero aziendale.
Chi di loro risponderebbe? Chi lo teme di più? Fino a che punto potrebbe spingersi nel torturarli, mentre loro tacciono per paura di perdere il posto di lavoro? Chi sarebbe disposto a perdere la dignità pur di compiacerlo?
Lo vede nei loro occhi il terrore puro durante la riunione del lunedì. La vede la disperazione delle loro anime quando alle sei meno dieci del pomeriggio avanza loro richieste urgenti e irrealizzabili.
E tutto questo gli piace. Gli piace tantissimo.

V
Cric cric crac, cric cric stop.
Achille si ferma davanti alla libreria. Quella dove c’è l’Album.
Si ripresenta, insaziabile, il desiderio di guardare ancora una volta quelle fotografie.
Lo prendo solo un attimo e lo tengo fra le mani. Con i polpastrelli accarezzo il cuoio e sento il ruvido dello spessore delle pagine. Ne respiro il profumo, ma non lo apro. Non posso farlo.
E’ un vaso di Pandora.
Ma, sfilando il volume, una piccola fotografia quadrata, di quelle che il tempo ha reso sbiadita e rossiccia, scivola fuori dalle pagine e, volteggiando, cade in terra.
Achille si inchina e la raccoglie.
Questa la posso guardare.
E’ un ritratto di famiglia, di quelli che Margherita sua madre, amava fare con l’autoscatto a Natale. La posa che preferiva era proprio questa: Achille al pianoforte, i suoi fratelli Arturo e Armando al suo fianco e in secondo piano lei e Adelmo.
Margherita sempre solare e sorridente, lui distratto e annoiato.
Margherita era la quarta di cinque figli: suo padre Achille era un noto medico di Perugia, mentre la madre una contessa.
Poco più ventenne era scappata di casa per sposare Adelmo, un artista straordinariamente creativo e sensibile, ma un marito assente e del tutto privo di senso pratico. Adelmo viveva, da oltre sessant’anni, in una bolla di narcisistico autismo, comportandosi, nei riguardi della sua famiglia, come uno spettatore annoiato a teatro.
Sbadigliando molto spesso e controllando, di tanto in tanto, l’orologio per vedere che ora si era fatta.
Arturo, invece, era il suo fratello maggiore: alto, magrissimo, ombroso e determinato.
Non guardava mai nessuno negli occhi: un ciuffo di capelli gli copriva costantemente lo sguardo. Era diventato avvocato e vivenza a Roma con la sua famiglia.
Quando è stata l’ultima volta che l’ho visto? Al mio matrimonio? Sono già passati otto anni? Dovrei trovare il tempo per chiamarlo, magari lunedì: sono a Roma e se faccio in tempo vado a trovarlo.
Infine, alla sua sinistra, c’era Armando, l’unico in grado di capirlo oltre a sua madre.
Il solo a difenderlo quando a scuola tutto volevano picchiarlo o lo chiudevano in bagno.
L’unico a cui piace lavorare con me. L’unico di cui mi fido.
VI
Cric cric crac, cric cric roar.
Un ruggito. Il suo Bosendorfer lo guarda minaccioso.
Nero, nell’angolo, lo sta puntando. Forse vuole ucciderlo.
Non mi posso avvicinare. Non lo devo fare.
Seduto sul parquet d’ulivo il bambino prodigio sta facendo un disegno con un pennarello rosso.
Seduto alla sua scrivania c’è un produttore e compositore rampante che, ancora sbronzo, urla al telefono: “Mandami quel maledetto fax! Voglio quel fax firmato subito!” e batte i pugni sul tavolo.
La fotografia trema nelle mani di Achille.
Non bisogna aprire il vaso di Pandora. Mamma non vuole.
[Continua]